Spolvero


è una prova star qui ad aspettarti
e ti chiamo per nome
e lo grido e non riesco a sentirlo

forse a stare seduti si attende invano

Anni


ho in tasca un dimesso ricordo
che non posso afferrare altrimenti
come d'abitudine
non ho nemmeno tempo
per la punteggiatura

Abbozzi inediti 4

[…]
- Un caffè! – prendeva sempre un caffè dopo pranzo, spesso qui, nel caffè dell’università dove con un caffè, credo sudamericano o vattelapesca, fanno un caffè davvero eccellente. La cassiera rispose riflessa al suo grazie; si fece spazio verso il bancone nel fumo di sigarette digestive, sulle voci accese di sport ed esistenzialismo, fra lo sventolio di scontrini e, al riparo da cucchiaini branditi e crepitanti pasticcini, ammonì con gli occhi il barista-giocoliere che con tazzine e piattini è abilissimo e svelto, anche se il suo repertorio è un po’ scarso, tutti quanti lo conosciamo bene e anche dopo il caffè qualcheduno, nel vederlo, sbadiglia comunque.
[…]
Ale. 1:07 Affanno. Leggeva piano a fatica, ogni frase era un dedalo in cui smarrirsi alla ricerca di un senso plausibile, ogni virgola, ogni segno d’interpunzione era un invito a distrarsi, ogni capoverso un motivo per chiedere il libro e poggiare la matita insapore: non riusciva a ricordare nulla delle ultime pagine; diede un’occhiata agli appunti in brutta copia di passate lezioni poggiati in bella mostra alla sua destra, cercò di fare collegamenti. 1:32 Sonno. La lampadina della scrivania *bolliva, accese una sua, tornò ad aprire un volume: non sapeva più cosa stava leggendo, le ciglia facevano ombra sul nero dell’elzeviro. Clacson. Steso sul letto non leggeva neanche più: il mostro del polpettone gli si aggirava nello stomaco infierendo sul tenue, il retto bisbigliava qualcosa. Acqua. Pigiò un pulsante: dal televisore urla umane in un italiano barbaro diedero consigli per gli acquisti e per la vita. Aspirina®: effervescenza.
Pausa.
1: 54 Il disagio si allentò: provò a prendere sonno.
[…]
Una mosca si strofinava le zampe sul suo avambraccio sinistro, pareva esortarlo ad agire, doveva esserci un’altra soluzione, c’era! Ma non aveva la forza o il coraggio di trovarla. S’intrattiene col naso, l’indagava con cura in ogni sua parte, poi passò alle orecchie alla destra tocca aspettare. Perché si comportava così? Perché aspettava sempre che fosse lui a telefonarle, e gli diceva quando andava a trovarla di farsi sentire? Così gli toccava passare intere giornate a cercare di non farlo, a trattenersi in ogni modo, a fare mille progetti di abdicazione, a fissare scadenze improrogabili; ma niente non ci riusciva: aveva provato anche a cancellare il suo numero dal telefonino, tutto inutile: lo ricordava a memoria: 06497…
Edo si diceva: - Che male c’è se mi va di sentirla, quale è il problema, del resto siamo rimasti amici? - Ma poi tornava a pensare amaro che il motivo del suo silenzio dipenda solo e soltanto dal fatto che non le faceva molto piacere sentirlo o meglio, che non le andava affatto. Perché allora ottuso tornava periodicamente a farsi vivo con lettere, SMS, squilli e compagnia bella? Su questa rugginosa altalena di arsi e tesi passava interi pomeriggi, finché il peso del rancore non ne spezzava le catene facendolo precipitare in una dannata cabina telefonica e costringendolo a comporre quel numero, indelebile quasi marchiato a fuoco sul petto: 06497…

Fra di noi

Vestito poi chissà mai perché come un assistente universitario: faccia da giovane, giacca di velluto a costine, pantaloni, se non proprio di vigogna, (comunque non-jeans) feci puntualmente ritardo. C'era un po' di traffico sulla tangenziale EST. Approfittai per raggiungerti della gentilezza di Elena, che con il marito era passata a trovarmi per
comunicarmi alcune novità sulla loro prossima esibizione: il solito lavoro malfatto sulle baccanti euripidane.Ti cercai tutto il pomeriggio, ma il telefono lo tenevi spento e a quello di casa non rispondevi, così senza un programma puntuale, un appuntamento programmato, decisi di partire ugualmente. In macchina, una volta che Elena abbandonò suo marito in palestra, ero io a parlare, ma non le faci domande in modo da non dovere poi risponderne a qualcuna scomoda io. Ad ogni modo, attorno alle venti fui nei pressi di casa tua. Salutai Elena ringraziandola dopo averle promesso qualcosa del tipo: “Ci vediamo”, e mi incamminai
lungo via Migliorini. All'altezza del civico 22 inscontrai Antonio Pezzi detto "il contestatore" il quale mi (intra)tenne una buona dozzina di primi in una conversazoine complicata sull'accordo stipulato dalla UTET con la DE AGOSTINI: «Almeno i capitali restano in mani italiane» terminò. Liberatomene, in ulteriore ritardo (tu certo non ti sei chiesta che fine avessi fatto) finalmente raggiunsi il tuo portone, il portone di casa tua, del tuo palazzo, del palazzo in cui c'è casa tua, la casa che hai preso in affitto da due anni e mezzo per essere precisi.
Citofonai, mi dicesti con innaturale naturalezza : «Sali». Presi l'ascensore, stranamente funzionante, pigiai sulla tastiera il pulsante che corrisponde al tuo piano. Le porte si chiusero. Sulla soglia di casa tua incontrai Annalisa, che mi salutò isterica; risposi, aggiunse: «Scappo», lo fece. Entrai in casa senza il logoro: «Buonasera» in silenzio. Sei in camera da letto, mi fai cenno di aspettare in corridoio e chiudi la porta. La riapri dopo un secondo, mi osservi guardarti e scappi in bagno, sento il rumore dell'urina sul water.
Torni nuovamente in camera e ti chiudi di nuovo la porta alle spalle, suono come di caramelle. Bussano alla porta, tu da dietro la porta ordini gentile: «Vai ad aprire», eseguo. Francesca propone cortese un bacio, lo ricambio volentieri. Ha qualcuno alle spalle, è il suo zito Alessandro che non avevo mai visto prima di adesso, mi presento e li faccio entrare, si accomodano in salotto. Compari. Baci, si parlotta.
Squilla un telefonino: è il tuo, rispondi e ti allontani, ma non ti guardo e continuo a parlare con Alessandro. Mi dice quasi ammettendolo, che fa il cameriere in un grande albergo di Spqr, faccio la faccia il più dignitosa possibile e aggiungo una frase priva di senso e contesto. Sei di nuovo fra di noi, non hai nulla da offrire e ti scusi: usciamo. L'appuntamento con Luigi era alle nove e trentacinque circa, siamo in ritardo, ma non troppo. Quando arriviamo è già lì che aspetta, non pare seccato. Nuovi saluti e presentazioni: sua moglie, (chissà perché la immaginavo diversa, tutt'altra persona). Il concerto inizierà a momenti, guardo l'orologio, ci siamo tutti o quasi. Manca solo Daniela che arriva trafelata con un gruppo di nuove amiche, tu le ringhi qualcosa.
Si entra. I posti non sono numerati e la sala è quasi piena, ci sediamo, o meglio, occupiamo i posti con le giacche, a te va già di fumare, mi chiedi: «M'accompagni?», solo per non essere scortese rispondo di sì. Scendiamo nuovamente nell'atrio. Gente benvestita arriva alla spicciolata. Mi chiedi: «Ne vuoi? », e mi porgi il pacchetto, faccio cenno di no, quindi aggiungi seccata: «Che hai?». Non rispondo, sorrido appena e ti sfioro i capelli. Vai a sederti su di una poltrona rossa che ha una bruciatura sul bracciolo sinistro. Accanto a te c'è
un posacenere ci spegni la sigaretta che hai fumato per metà. Mi prendi sottobraccio. Il concerto è iniziato, facciamo le scale e torniamo in galleria. Ho accanto a me Betta, ci scambiamo commenti senza una vera e propria volontà comunicativa, la sala è buia sei alle mie spalle, ma qualche fila più in dietro: da qui non si riesce a sentire il tuo odore. C'è l'intervallo, ne approfitto per ritirarmi in bagno qualche secondo. Mi lavo le mani, sciacquo la faccia e piscio. Uscendo un tale mi chiede tabacchi, mi tocco le tasche e faccio cenno di non averne. Sposto la tenda che separa il corridoio dalla sala. Con il buio ripartono gli scc del pubblico, non ho avuto tempo neppure di farti un sorriso decente. Alle 23:30 è ora dei bis. Siamo davanti al teatro, c'è un po' di freddo, la primavera si fa desiderare. Con Angela ci scambiamo qualche battuta in abruzzese. Ho fame ed entrambe le mani in tasca. Siamo tornati da te, alcuni sono andati via salutati salutando, altri hanno ancora voglia di compagnia. Faccio il gentile. Cerco di deconcentrarmi, rinvio ogni tipo di giudizio-convinzione. Si è fatto tardi e casa mia è lontana, fuori Spqr, mezzanotte è passata da più di un minuto, le strade illuminate e sporche aspettato l'AMA. Saluto tutti e te. Scendo e mi cerco un taxi. Do un indirizzo all'autista, mi coglie un dolore, ma è un attimo. Faccio a meno di ricordare, chiedo in cerca di comprensione: «Le dispiace se fumo?».