Ritorni

Ritorni 1998
di Zy Tanoamiki

Avevo su una camicia soltanto, non pensavo di trovare una temperatura molto diversa in paese - ogni volta mi stupisco! Ero stanco, troppo in giro da troppo, per qualche tempo volevo solo riposare.- La vita di chi sto' vivendo? – mi sorprendevo a pensare: - La mia? - mi rispondevo rassegnato. Ogni gesto che compivo, non proveniva dall'interno, ma dalla superficie, una mimica espressiva, ma muta al tempo stesso.
Un tassì mi portò via dalla stazione, le uniche parole che l'autista udì da me, un tipo grasso e con pochi capelli in disordine, furono il nome della via all'inizio della corsa e un mezzo grazie al termine, dietro il finestrino abbassato per metà per il freddo, che si era fatto pungente. Varcai la soglia di casa, allegro e sorridente, quasi mi aspettasse chissà cosa chissà chi; nulla invece: la solita puzza di chiuso e il triste disordine dei miei pensieri, palesati su quelle odiose carte che ritrovavo un po' dappertutto. Mi sdraiai sul divano senza pretesa di dover dormire: il sonno venne, ed io gli feci spazio stringendomi sulla spalliera. Mi svegliai come dimentico di quale importante faccenda; erano poche ore che ero tornato, e già sentivo forte l'esigenza di dovere partire di nuovo, ignoravo per dove, ma era quasi un'urgenza - anche se sapevo di odiare gli alberghi e la complice cortesia di portieri e facchini.
Qualcosa mi distrasse per un lasso si tempo di cui non saprei ben quantificare la durata, poi sentii qualcuno bussare deciso la porta. - Siamo noi - una voce di donna chiamava sicura di essere udita. - Sei in casa?. Tacqaui. Lo sportello si chiuse, il motore si accese, il vicino cane abbaio indolente e le foglie s'ingrigirono di polvere. Timidamente scossi la tenda e vidi la vettura riprendere il vialetto di casa dal quale, pensavo, fosse più velocemente giunta poco prima. Perché mi ero negato? Eppure lei era la persone con cui convivevo il tempo, quando non ero da solo o con qualche puttana, non mi interrogai più di tanto, e chiusi le labbra aspirando col naso colante.
Nel pomeriggio lasciai il telefono squillare sul mobile dell'ingresso, la segreteria parlava da sola, odiavo ascoltare i messaggi, ma quell'aggeggio era un regalo, di cui dovevo necessariamente far uso, la odiavo, forse, anche perché chi parlava, in realtà non voleva dire (non dirmi) niente di interessante o di serio. Le pareti, da poco imbiancate, erano tiepide, ed il sole, solo ora ci facevo caso, illustrava la valle che grigia, in parte, e verde, avevo davanti, dietro le opache finestre. Cercavo qualcuno da poter accarezzare, mi resi conto un po' a malincuore di una strana assenza: il gatto - più giusto sarebbe dir gatta o gattina - non ancora si era fatto viva cerano solo dei peli su una sedia in cucina. Di solito sapeva già quando tornavo - non so come facesse - e m'aspetta davanti all'ingresso affamato. Lo cercai tenendo conto delle sue abitudini, mi sovvenne allora, che quello, forse, era il periodo in cui i gatti vanno in amore, e che in quei momenti di richiamo fisiologico, in passato, non l'avevo veduto anche per più due settimane. Lo chiamai ancora un poco, con in mano del cibo in parte avariato, che mi era rimasto nel frigo da quand'ero partito; poi mi spensi e voltandomi lentamente verso la porta, passo passo, passò poco che me la trovai chiusa alle spalle turbato. Certe donne sono sempre in amore, ne conoscevo - non sazio - diverse; altre invece non ci vanno mai e per loro far sesso, è un triste dovere o una scomoda necessita. Io? Io che le giudicavo, e che penso che fuori dal letto abbian poco da dire, io, cosa sapevo in realtà della donna? Delle donne, qualcosa l'avevo imparata qua e là con gli anni, attraverso anche alcune letture, ma della donna, mi accorgevo di non conoscere nulla, e di non avere appreso, né compreso molto, né dalla Romano né dalla Deledda.
Alla sera rincorrevo le mosche, chiamandole con strani nomignoli credendo di distinguere, (spesso l'ho fatto anche con le donne) ad alcune insegnavo la strada per uscire in terrazza, all'aperto libere, altre le uccidevo con eccesso di colpa sui vetri. Era ora di cena, noia e pigrizia mi spinsero a uscire per andare a ubriacarmi in una di quelle trattorie, in cui il padrone non sa chi sei e non ti fa domande, sul tuo ultimo libro o su quello avvenire. Presi l'auto, aprii lo sportello: annusai quell'odore di plastica che si poteva ancora percepire sensibilmente; anche se aveva quasi tre anni e il contachilometri segnava soltanto 6511, la metà fatti da te in quei giorni in cui mi venisti a trovare in Abruzzo.
Scesi in città e girai un poco a vuoto con la testa vuota, solo le buche disseminate di tanto in tanto sulla strada richiamavano in me l'attenzione alla guida. Una piccola insegna, ingiallita dal sole, attirò la mia annoiata curiosità. Parcheggi in un posto riservato ad invalidi ed entrai nel locale borbottando qualcosa per farmi notare, ma non si voltò nessuno nella sala che aveva un pavimento a marmittoni bianchi e neri, e alle finestre, delle tende annerite dal fumo e dal grasso delle cucine. Sentii alle spalle una maleodorante e ingombrante presenza. Il padrone mi si era avvicinato e vigliacco mi chiese più volte: - E' solo?
Non parlavo; poi dissi seccato: - Sì! - cessando immediatamente quella conversazione scomoda, che metteva il risalto il mio stato di cose. Mi fece sedere in un tavolo all'angolo e ordinare qualcosa di cui non ricordo il nome, ma di cui il sapore e il profumo sgradevole e invitante al tempo stesso, li ho ancora adesso in bocca. Il locale si andava svuotando, le ultime persone che sedevano ai due tavoli in plastica occupati ancora col mio, ad uno due vecchi di sicuro amici del proprietario, in un altro una coppia di ragazzi in cerca del posto alternativo - si alzarono quasi contemporaneamente ed uscirono zitte, guardandomi tra la pena e il ribrezzo, dopo aver salutato cortesi.
Mi alzai di lì a poco a fatica anch’io quasi sbronzo, non ricordo di avere pagato, di sicuro l'ho fatto, poi le chiavi, lo sportello, il quadro acceso, le luci, il finestrino aperto, l'aria fredda sulla faccia, dei pedoni, uno scooter, una macchina ferma, il rosso di semaforo e il buio. Sto bene, mi ha detto il dottore: il dolore passerà presto, non preoccupati ho solo bisogno di riposare, in fondo poi era quello che volevo. Il gatto (la gatta) è tornato: è ho paura sia incinta.

Traduzione di Andrea Vecchio